Piersanti Mattarella era fratello di Sergio e figlio di Bernardo Mattarella, importante politico Dc e più volte ministro e sottosegretario dal 1948 al 1966. Piersanti — allievo di Moro e ispirato da La Pira — era assistente ordinario all'Università di Palermo e consigliere comunale quando nel 1967 fu eletto per la prima volta all'Ars (il parlamento siciliano); in seguito venne rieletto per tre legislature consecutive. Dal 1971 al 1978 fu assessore regionale alla Presidenza; proprio nel 1978 fu eletto presidente della Regione Sicilia e guidò una giunta di centrosinistra con il sostegno esterno del Pci. Nella prima settimana del Febbraio del 1979 a Villa Igea (Palermo) si tenne la Conferenza regionale dell'agricoltura. L'onorevole Pio La Torre, responsabile nazionale dell'ufficio agrario del Pci, attaccò l'Assessorato dell'agricoltura denunciandolo come centro della corruzione regionale; in più additò lo stesso assessore come colluso con la mafia. Quando tutti in sala attendevano che il Presidente difendesse il proprio assessore, Piersanti smentì tutti riconoscendo la necessità di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali. A fine Ottobre 1979 sentendo di essere in pericolo, corse a Roma per riferire con Virginio Rognoni, allora ministro dell'Interno; solamente nel 1981 il diretto interessato rivelò ai giudici che Mattarella aveva fatto espliciti riferimenti alle azioni di contrasto alla mafia da lui promosse e alle difficoltà incontrate nel partito; in particolare lo preoccupava il "ritorno" di Vito Ciancimino. Negli ultimi mesi affrontò due questioni spinose: il 2 Settembre rimosse dalla giunta Rosario Cardillo, assessore repubblicano ai lavori pubblici; infatti era stato scoperto un sistema illecito di controllo degli appalti pubblici da questi coordinato. La seconda questione fu un'ispezione straordinaria disposta su un appalto per la costruzione di sei scuole aggiudicato da alcune ditte riconducibili a Rosario Spatola.  P.S. dell'11.01.2012  oggi il pm Francesco del Bene all'apertura dell'udienza nel processo sull'omicidio Mauro Rostagno ha comunicato che il teste d'accusa Rosario Spatola non sarebbe potuto essere presente perchè deceduto ¦fonte¦. In seguito si è saputo che l'ex "soldato" di Cosa nostra era morto il 10 Agosto 2008 all'età di 59 anni nella sua città, Campobello di Mazara (Trapani). Intanto il 18 Dicembre anche i socialisti si staccarono dalla giunta provocando la seconda crisi dopo quella aperta a Marzo dai comunisti. La sinistra aveva posto una precisa condizione: fare entrare i comunisti nel governo regionale; ma tutto si sarebbe deciso a Febbraio con il XVI Congresso nazionale della Dc. In quel giorno d'Epifania, essendo una domenica, Mattarella non aveva scorta: infatti voleva che i suoi "angeli custodi" passassero i giorni festivi in famiglia. Poco prima delle 13 il presidente, insieme alla suocera ed i due figli, s'apprestava ad andare a messa alla vicina Chiesa dei Gesuiti. Aprì il garage e fermò la macchina all'imbocco con viale della Libertà, al numero 67; suo figlio Bernardo scese e andò a chiudere il portone. Improvvisamente un uomo con la pistola s'accostò al finestrino del guidatore e sparò vari colpi a bruciapelo. Irma cercò di proteggere il marito rimanendo così ferita ad una mano; il sicario con calma glaciale andò da un complice in macchina e si fece dare un'altra pistola e scaricò altri tre colpi. Sul posto arrivarono le pattuglie della polizia e anche i fotografi de “L'Ora”; il fratello Sandro era sceso subito in strada e decise di non aspettare l'ambulanza. Facendosi aiutare mise il corpo di Piersanti, ormai agonizzante, su una volante e via verso l'ospedale più vicino: il Villa Sofia. Purtroppo i sei colpi non lasciavano speranze: il presidente morì senza riprendere conoscenza mezz'ora dopo il ricovero; avrebbe compiuto 45 anni il 24 Maggio. Già due ore dopo l'omicidio arrivò una telefonata di rivendicazione dei sedicenti dei sedicenti “Nuclei armati rivoluzionari”, di “Prima linea” e “Brigate rosse”; ciò era già avvenuto per l'assassinio del segretario provinciale Dc Michele Reina (9 Marzo 1979). Però certe modalità dell'omicidio, le due pistole usate dal sicario e sopratutto la macchina dei complici ritrovata intatta (e non bruciata), facevano propendere per una matrice di tipo terroristico. Il sicario fu descritto da Irma come <<sui 40 anni, con gli occhi di ghiaccio>>; l'arma usata doveva essere un revolver perchè non furono trovati bossoli in terra. Il 12 Agosto 1980 Bruno Contrada, allora capo della Criminalpol della Sicilia Occidentale, andò in Inghilterra a far vedere alla vedova e la figlia di Mattarella una foto segnaletica, molto somigliante all'identikit del sicario. La donna riconobbe nella foto di Salvatore Inzerillo quell'uomo <<sui 40 anni, con gli occhi di ghiaccio>>; anzi si dichiarò pronta a ritornare immediatamente a Palermo per incontrare il presunto killer. Questi era in stato di fermo per l'omicidio del procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, ucciso sei giorni prima. Ma proprio in quell'ore Salvatore Inzerillo fu scarcerato per mancanza di indizi e subito si diede alla macchia. Alcuni testimoni confermarono l'alibi del giovane mafioso e così i magistrati palermitani Martorana e Guarino avevano deciso di rimetterlo in libertà... Si ritiene che Salvatore Inzerillo, come membro della cosiddetta "mafia perdente" sia stato fatto sparire nel Maggio 1981. Pio La Torre fu ucciso insieme al suo autista-segretario Rosario Di Salvo la mattina del 30 Aprile 1982 in via Turba a Palermo da killer della mafia. Già dopo l'arresto di Valerio ‘Giusva′ Fioravanti, capo dei Nar, suo fratello Cristiano quando fu arrestato non esitò di accusarlo di molti altri omicidi, fra cui quello di Mattarella. La sua vedova lo riconobbe "senza ombra di dubbio" come l'uomo che aveva sparato al marito. Il 19 Ottobre 1989 il giudice istruttore Giovanni Falcone, accogliendo le richieste avanzate un mese prima dalla Procura della Repubblica di Palermo, emise due mandati di cattura nei confronti di Fioravanti e Gilberto Cavallini come rispettivamente esecutore materiale e complice nell'omicidio di Piersanti Mattarella. Secondo Falcone solo una parte delle cosche mafiose voleva uccidere il Presidente della Regione; così quella vicina a ‘Pippo′ Calò lasciò all'oscuro la Cupola "commissionando" il delitto a killer mafiosi terroristi con i quali, tramite la banda della Magliana, era già in stretti contatti. Nel 1993 i pentiti della "mafia perdente" Tommaso ‘Masino′ Buscetta e Francesco Marino Mannoia ribadirono che nell'omicidio Mattarella i due ex terroristi neri non c'entravano nulla. Quel "delitto eccellente", l'unico di un presidente di un'istituzione in carica, fu ordinato dal capomandamento della zona (Bocca di Falco-Passo di Rigano) dove era avvenuto: Salvatore Inzerillo. Forse stavolta i Corleonesi e i loro più fidati sicari (Giuseppe Scarpuzzedda Greco e Mario Mariuzzu Frestifilippo) non c'entravano con l'omicidio di Mattarella e Costa. A inizio del 1995 il pubblico ministero del processo per l'omicidio Mattarella chiese l'assoluzione di Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini dall'accusa di essere gli esecutori materiali. Il 12 Aprile la Corte d'assise di Palermo li assolse e condannò invece all'ergastolo i boss di Cosa nostra come mandanti; la Corte d'Appello ribadì le condanne poi definitivamente confermate in Cassazione. Comunque ancora oggi non sono noti con certezza né i nomi dei mandanti esterni, né i nomi dei sicari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

Riccardo Dura diventò un militante di rilievo in Lotta continua; nel 1973-1974 passò alle Brigate. Nel Gennaio 1975 Mario Moretti e Rocco Micaletto fondarono una "colonna genovese". Qualche tempo dopo Dura s'aggregò e divenne il luogotenente principale nell'organizzazione; il suo "nome di battaglia" era ‘Roberto′. Secondo alcune fonti, fra cui le dichiarazioni del pentito Patrizio Peci, Dura ebbe un ruolo attivo nel comando che uccise il giudice Francesco Coco e la sua scorta l'8 Giugno 1976. Quando Micaletto se ne andò, nell'Aprile 1978 ‘Roberto′ divenne capo-colonna; il 21 Giugno partecipò all'omicidio di Antonio Esposito, dirigente del commissariato di Nervi ed ex funzionario dell'Antiterrorismo. Il suo ruolo doveva essere quello di "appoggio ravvicinato" al compagno incaricato di sparare. Contravvenendo allo schema operativo previsto, ‘Roberto′ intervenne personalmente sul bersaglio. La notte del 24 Gennaio 1979 era in un furgone in via Ischia 4 insieme a Lorenzo Carpi e Vincenzo Guagliardo in attesa che Guido Rossa uscisse di casa per andare al lavoro. Alle 06:35 l'operaio dell'Italsider, e sindacalista Cgil, salì sulla sua 850; Guagliardo gli sparò quattro colpi alle gambe per appunto "gambizzarlo", i tre si allontanarono ma poi Dura tornò sui suoi passi e finì il ferito con un colpo al cuore. Il giorno dopo i membri dell'organizzazione chiesero spiegazioni; Dura si giustificò dicendo che le spie andavano uccise. Fu valutata seriamente la sua espulsione, ma per evitare fratture interne si lasciò fare. ‘Roberto′ continuò attivamente la sua militanza e riuscì a diventare membro del Comitato esecutivo. Il nome di Dura è comparso negli atti dei processi per gli agguati verso militi dell'Arma: il 21 Novembre 1979 Vittorio Battaglini e Mario Tosa furono uccisi in un bar di Sampierdarena. Infine il 25 Gennaio 1980 forse Dura sparò contro un'auto dei carabinieri con a bordo tre persone: il colonnello Emanuele Tuttobene e l'appuntato Antonino Casu morirono, mentre il colonnello dell'Esercito Luigi Ramuando rimase gravemente ferito.

 

 

Annamaria Ludman era nata a Chiavari il 9 Settembre 1947, diplomata alle Magistrali s'iscrisse a vari corsi di lingue; si sposò nel 1970 e per un breve periodo visse con il marito tabaccaio in via Fracchia 12, appartamento intestato ai suoi dal 1964. Dopo la separazione tornò a vivere con i genitori a Chiavari. In seguito lavorò come segretaria in una ditta di spedizioni, poi si trasferì a Como per pochi mesi sempre come impiegata. Nel 1978 trovò un impiego al Centro culturale italo-francese “Galliera” in via Garibaldi. Nel Giugno 1979 si licenziò per "ragioni economiche", tornò nell'appartamento di via Fracchia e qualche mese dopo si stabilì con lei Lorenzo Betassa. La madre sapeva che collaborava con istituti scolastici esteri e che ospitava studenti provenienti dalla Svizzera e dalla Francia. I vicini la ricordavano come una persona tranquilla, di poche parole; l'inquilina del piano di sopra spesso sentiva battere una macchina da scrivere. Un paio di volte una vicina vide un uomo (probabilmente Dura) scavare nel giardino con il piccone. Il 25 Marzo lei e ‘Roberto′ furono incrociati nell'androne da una vicina mentre portavano, quasi trascinavano, delle borse molto pesanti. Anche lei, militante"irregolare” (cioè non ancora entrata in clandestinità) aveva un "nome da battaglia": ‘Cecilia′.

 

 

 

 

 

 

 

I dettagli furono definitivamente chiariti in un'intervista dall'allora ufficiale dei carabinieri che aveva guidato il blitz; l'articolo è uscito sul Corriere Mercantile del 14.02.2004. Patrizio Peci, primo grande pentito delle Br, verso il 20 accennò ad una "pensione" per terroristi latitanti in in via Fracchia dove aveva dormito sette-otto mesi prima. Ricordava solo che era al piano terra e ci abitava regolarmente una giovane donna. Guardando la piantina catastale dello stabile all'interno 1 in via Fracchia 12 Peci riconobbe il "covo"; quindi c'era solo da organizzare il blitz. Da appostamenti, analisi dei consumi del gas, della luce e anche della spazzatura fu appurato che in quell'appartamento c'era "vita", ma non si poteva stabilire quanti fossero gli occupanti. Riccio suggerì di aspettare l'uscita della donna, fermarla e salire in casa con lei. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa però non fu d'accordo: l'irruzione sarebbe scattata alle 4 del 28. Il diretto superiore di Riccio, tenente colonnello Niccolò Bozzo (responsabile per il nord Italia del reparto antiterrorismo di Dalla Chiesa), avvertì il prefetto e le altre autorità. Alle 3 in via Ippolito D'Aste c'erano: la squadra di Riccio, personale del Nucleo operativo, carabinieri in divisa, in borghese; le "gazzelle" era posizionate a qualche centinaio di metri per tranquillizzare gli abitanti ed evitare il panico. Tutti erano armati di fucile a pompa e mitragliette, casco, giubbetto antiproiettile; insomma in tenuta da "teste di cuoio". Per entrare chiesero la collaborazione della anziana che abitava nel piano sopra all'interno 1; gli avevano fatto credere che si trattava di un'operazione antidroga: quando a notte fonda avesse sentito suonare al citofono avrebbe aperto. Alle 04:30 due gruppi da tre uomini entrarono nello stabile, arrivati alla porta dell'appartamento suonarono e urlarono: «Carabinieri, aprite! È una perquisizione!». Dall'interno si sentirono dei passi e invece di aprire diede altri giri di serratura. La porta fu sfondata a calci e oltre questa i carabinieri si trovarono di fronte una tenda nera da cinema. Dopo averla scostata, sul corridoio buio arrivò un po' di luce dalle scale; Riccio urlò di arrendersi, il compagno vicino Rinaldo Benà sollevò la visiera e un attimo dopo fu colpito da alcuni spari; un proiettile gli perforò l'occhio e l'uomo cadde in mezzo all'ingresso in un lago di sangue. Miracolosamente era ancora cosciente e tentò di rassicurare Riccio, questi iniziò a sparare con il fucile a pompa insieme ai due colleghi con il mitra. Poi arrivarono anche gli altri tre che erano rimasti in indietro e spararono all'impazzata anche loro. Nel corridoio quattro persone erano cadute a terra, i primi tre (nell'ordine Dura, Piero Panciarelli, la Ludman) proni e quello più distante Lorenzo Betassa supino. Riccio chiamò un'autoambulanza e parlò con Bozzo dalla sala operativa; qualche minuto dopo il telefono squillò ed una voce maschile, poi identificata come Livio Baistrocchi, disse «Roberto [Dura] state pronti, fra mezz'ora... ». Appena capì che dall'altro capo del telefono non c'era il compagno R. riattaccò e da allora è latitante. Fu poi stabilito che i brigatisti la mattina successiva avrebbe compiuto un agguato ad un dirigente dell'Ansaldo. Una calibro nove era sotto il corpo di Betassa, l'unico vestito che probabilmente dormiva in un sacco a pelo in salotto; anche Panciarelli era armato. Invece la Ludman aveva una bomba a mano di tipo "ananas"; fortunatamente non riuscì ad innescarla e gli cadde vicino. Una borsa con dentro armi e munizioni fu trovata in fondo al corridoio, che fosse stata trascinata lì nel momento del bisogno? In una stanza dell'appartamento furono ritrovati carte d'identità in bianco, patenti rubate, passaporti, un tesserino di una guarda di P.S. intestata ad un agente in servizio e sopratutto un vero e proprio arsenale: armi leggere, munizioni, rivoltelle, fucili, mitra, bome a mano, candelotti di dinamite. Per portare via tutto il materiale servì un'ora e due pulmini furono stipati anche dei vestiti. Il sostituto procuratore e un altro pubblico ministero poterono entrare nell'appartamento, comunque presidiato da carabinieri in divisa e borghese. Qualche anno fa un operaio scavando nel giardino dello stabile di via Fracchia trovò dei sacchi pieni di documenti delle Br; naturalmente li consegnò alla polizia. Il 27 Agosto 2017 la Procura della Repubblica di Genova ha aperto un fascicolo in danno di Dura Riccardo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il cadavere femminile che fu ripreso da un aereo mentre galleggiava sulla superficie del mare era quello dell'hostess Rosaria (Rosa) De Dominicis. La ragazza, nata a Roma il 06.11.1959, era un perito per il turismo e da qualche anno era stata assunta come in Italvia allieva assistente di volo. Il suo corpo venne sottoposto ad autopsia perchè era fu l'unico emerso fra i quattro dell'equipaggio; infatti il pilota, il copilota e capo assistente di volo Paolo Morici non furono recuperati. Probabilmente rimasero intrappolati nel relitto del Dc-9; negli anni successivi i loro cadaveri si dissolsero poichè durante le fasi di recupero dal 1987 al 1991 non fu trovata traccia di resto umano nei fondali dove si erano adagiato l'aereo. Durante l'autopsia risultò che sul corpo di Rosa — già in stato di rigor mortis — non c'erano né ustioni né ferite dovute ad un'esplosione di una bomba. Nemmeno lei risultò essere morta per affogamento; curiosamente non aveva le scarpe ai piedi come molti altri passeggeri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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